MICHELE PELLEGRINO
photography
Alpi Liguri, Marittime e Cozie
"Le Montagne della Memoria" - Giuliana Scimè
Passano gli anni di impegno cosciente in fotografia e mi illudo di aver appreso qualcosa e, invece, mi accorgo di non conoscere quasi nulla. Mi stupisco, ogni volta che mi soffermo a riflettere con le immagini negli occhi, quanto la fotografia sia gelosa dei propri segreti e come li lasci trapelare in modo sommesso ed insinuante. L'unica salvezza per capire è la capacità di continuo stupore. Fotografie di oggetti, persone, luoghi, di fantasie ed immaginazioni che ci hanno insegnato e ci insegnano a conoscere e riconoscere. Prima chissà come vedevano gli uomini. Di certo la loro esperienza era infinitamente modesta. Il paesaggio, mille e mille universi così diversi e del tutto inconciliabili. I paesaggi si affollano confusi nelle immagini della memoria, uno ... due ... si impongono nitidi e precisi e poi si scopre che sono "reali", ma fotografie. E vedo pianure e colline, boschi e campagne dove non sono mai stata e dove, forse, non andrò mai. Un'esperienza in diretta che non vivrò se non tuttavia mi appartiene, è dentro di me perché un altro -un fotografo- me l'ha voluta regalare. Come queste valli di Cuneo, bellissime nella violenza dei contrasti, aspre di rocce e morbide nei sinuosi declivi, cristalline di acque sorgive, luminose di raggi fra foglie ed arbusti e cupe di ombre inquietanti. Sparse con sapiente armonia le case; spuntano tetti, muri, curvi camini e scale di pietra. E su tutto, il silenzio. Un silenzio talmente assoluto da essere percepito quale antagonistico sistema al clamore di una società volgare e tanto ammaliatrice sirena. L'ambiente ed il paesaggio delle fiabe, tale è l'incanto che queste fotografie hanno catturato. Però, dietro alla macchina fotografica c'è l'uomo con i suoi occhi, il suo cuore e la sua capacità unica di penetrare nel mondo delle cose. Michele Pellegrino si è così compenetrato, in un rapporto d'amore, con queste valli da comporre un poema per immagini.
Ogni fotografia celebra uno scorcio, un frammento, un particolare o un punto di vista di grande respiro in un ambiente impressivo per la naturalità incontaminata. Non amo le comparazioni con altri autori, grandi nella storia della fotografia. Spesso ciò che vorrebbe essere lusinghiero complimento si rivela insostenibile raffronto, ma l'opera di Pellegrino, nel suo complesso e nelle singole fotografie, riconduce ai maestri americani del paesaggio. Gli straordinari pionieri dell' 800: Carlton Watkins, Timothy O' Sullivan, Eadweard Muybridge e Henry William Jackson che scoprirono per primi e fermarono per sempre la bellezza di terre ignorate. Può sembrare paradossale il trovare elementi comuni fra gli sterminati territori dell'ovest americano e le relativamente circoscritte valli del cuneese, eppure le qualità ed i valori delle fotografie sono i medesimi. Non è, infatti, mai l'oggetto a condizionare l'immagine. E' l'autonomia creativa del fotografo che imprime all'oggetto caratteristiche formali e contenutistiche. "La verità" non esiste in alcuna arte e tanto meno in fotografia. Pellegrino lavora con lo stesso atteggiamento interiore e percorre lo stesso cammino di ricerca dei quattro grandi americani anche se i luoghi che egli fotografa non sono inesplorati. E' lo spirito che lo anima: la scoperta dei nuovi ignorati aspetti di una realtà già nota e questa deve essere la fotografia, quando ormai ogni minuto dettaglio è stato esplorato e fissato in un'immagine. Inoltre, la qualità tecnica delle sue stampe in bianco e nero non è affatto comune all'interno della produzione contemporanea ed una volta ancora bisogna sottolineare la rispondenza ad una fotografia che richiedeva sublime perizia artigianale.
Oggi, automatismi, prodotti self service e laboratori per conto terzi, hanno per un verso polarizzato la fotografia rendendola un esercizio elementare e, per un altro verso, hanno appiattito la qualità ad un livello standard decisamente mediocre, a svantaggio del contenuto soprattutto. Si direbbe un assurdo che il significato venga annullato da un problema tecnico, cioè la superficie apparente risucchia il valore intellettuale. Invece, l'opera d'arte funziona solo se esiste un perfetto equilibrio fra tecnica e concetto, come nel caso di Michele Pellegrino. La delicatezza del suo modo vedere, il suo desiderio di restituirci la bellezza che ha saputo individuare trovano compiuta espressione nel tramite prescelto, la fotografia di eccellente qualità. Altrimenti non si potrebbero godere i sofisticati passaggi tonali, la minuzia dei dettagli che sono parte essenziale della sua comunicazione visuale. Però vi è un altro elemento straordinario nel lavoro di Pellegrino: il suo paesaggio delle valli ha un fine di memoria testimoniale con una sottintesa denuncia sociale. I villaggi, gli agglomerati di case, le fattorie isolate sono stati abbandonati anni orsono. I valligiani, dopo quasi mille anni di storia stanziale, di costruzioni manuali pietra su pietra sono scesi al piano dove il lavoro è più facile, le comodità, i mezzi di trasporto, l'assistenza sanitaria e tutto ciò che è integrazione nel sistema è un diritto. Cosa hanno perduto e cosa hanno guadagnato non è di nostra competenza stabilirlo, anche perché la misura del sacrificio è personale. Sono rimaste lassù nel silenzio, nemmeno rotto dai suoni della vita quotidiana, la presenza dell'uomo. Le nostalgie sono stupide, soprattutto quando non coinvolgono la vita privata e l'evoluzione della società forza a dei cambiamenti irreversibili. Il territorio subisce delle trasformazioni continue in conseguenza alle mutuate esigenze. E' utopico pensare di poter preservare e conservare ogni traccia dell'uomo. Le architetture perfette di queste valli sono condannate al degrado ed alla distruzione. Un patrimonio culturale assai rilevante che pochi conoscono e che andrà perduto. E tuttavia sopravviveva in immagine con la ricerca sistematica di Michele Pellegrino.
La sapienza costruttiva dei valligiani, che seppero integrare nel paesaggio con naturale armonia le architetture, risalta nella fotografia di Pellegrino, che è riuscito a rendere la peculiarità di una situazione ambientale. Il valore del suo lavoro, però, travalica la semplice e sia pure buona, fotografia documentale di interesse sociale. Pellegrino ha conciliato documento e arte, un'aspirazione che raramente trova soluzione formale. Ed apprendo qualcosa e mi stupisco una volta ancora dell'insondabile estensione della fotografia. E' mai pensabile che la testimonianza scritta di un evento sia arte della letteratura? Non credo, o meglio non ricordo altri esempi. E vale anche per la pittura e il cinema. La scultura è tagliata fuori per ovvi motivi di materiali ed espressione. Recupero dalla memoria narrazioni, visive e non, che o son fedeli alla ricostruzione storica o sono fantastici trasporti della creazione artistica. Mi soffermo a riflettere sulle immagini di Michele Pellegrino. La sua "verità" è talmente infedele da essere l'unica possibile per comprendere e conoscere. Ogni sua fotografia mi stimola a un'analisi profonda che coinvolge lo specifico fotografico, la qualità originale del suo lavoro, l'intelligenza della scelta tematica e la risoluzione estetica. Lo spazio non c'è, nelle pagine, per soffermarsi su rapporti espressivi/formali (cieli densi di nubi morbide e tagli nette di tetti di pietra; spaccati di montagne ed inglobate costruzioni nella roccia; sfumati profili di colline e proteso nel vuoto un villaggio; tre linee di piatto orizzonte su un lago color del platino; un portico bianco che assume rilievo nella ricchezza delle ombre e distese di aspre colline; l'intrigo di boschi di pino dagli aghi argentei risplendenti ai raggi del sole: alberi in fiore e fiori di campo, …). E tutto questo ha un senso di terribile sintesi: l'estasi della bellezza. Guardiamo e sogniamo.